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mercoledì 19 dicembre 2012

MARCONI APPASSIONATO "DILETTANTE" DI ELETTRICITA'


Il premio Nobel Guglielmo Marconi visto dal filosofo Verrecchia

«Alla candida nave / di Guglielmo Marconi /
che naviga nel miracolo / e anima i silenzi»
Dedica di Gabriele D'Annunzio a Marconi

Oltre che grandissimo scienziato, Guglielmo Marconi fu anche un uomo di forte carattere, una qualità piuttosto rara negli uomini e negli italiani in modo particolare. Prezzolini diceva che l’Italia è una produttrice di tipi unici. Ecco, Marconi è un tipo unico, per genialità e per carattere. A lui si attaglia perfettamente anche il verso dell’Ariosto: «Natura li fece e poi ruppe lo stampo». Tutti oggi godiamo i vantaggi delle sue invenzioni; ma in un’epoca di smarrimento come l’attuale possiamo guardare a lui anche come punto di riferimento etico.
Carlo Rubbia, nella prefazione alla biografia di Marconi scritta dalla moglie, Maria Cristina, edita da Rizzoli, dice: «La comunità scientifica e imprenditoriale in Italia non era culturalmente preparata a sostenere la sua invenzione e a capirne la portata. Il Governo italiano rifiutò l’esclusiva del suo brevetto e fu solo in Inghilterra che trovò mezzi e volontà di sviluppare la sua scoperta. Possiamo veramente dire che le cose siano cambiate in cent’anni?». La risposta a questa domanda, che Rubbia non scrive ma che lascia intuire, è no. E sapete perché? Perché in Italia, come del resto nei paesi di lingua tedesca, o si è un professore o non si è niente.
Marconi con la seconda moglie e la figlia a bordo del panfilo Elettra.




Chi non fa parte di quella strana consorteria che sono gli accademici viene visto con sospetto. E questo vale non solo per le scienze, ma anche per le materie umanistiche. Eppure noi vediamo che le grandi cose sono sempre state fatte non dagli accademici, ma da quelli che essi chiamano sprezzantemente dilettanti. E qui cade a proposito una staffilata di Schopenhauer: «Dilettanti, dilettanti - così vengono chiamati con disprezzo coloro che si occupano di una scienza, o di un’arte, per amor suo e per la gioia che essa procura, per il loro diletto, dalle persone che hanno scelto una scienza o un’arte al fine di guadagnar denaro con essa. Infatti, soltanto il denaro che così si può guadagnare diletta questa gente. Tale disprezzo si basa sulla loro abietta convinzione che nessuno si dedicherebbe seriamente a una cosa, se non fosse spronato a farlo da miseria o da fame o da qualsiasi altra avidità. Il pubblico ha gli stessi atteggiamenti ed è quindi dello stesso parere: da ciò deriva il generale rispetto per i cosiddetti specialisti e la diffidenza verso i dilettanti. In realtà, invece, per il dilettante la cosa è fine a se stessa, mentre per lo specialista è solo un mezzo: ma chi si dedicherà con profonda serietà a una cosa è solo colui al quale essa stia direttamente a cuore, e che se ne occupi con amore. Da persone siffatte, e non già dai servitori pagati, sono state in ogni tempo create le opere più grandi».
Ho fatto questa premessa, per dire che le grandi intelligenze non sono mai capite. Anche Marconi fu un autodidatta e anche lui non prese la laurea, a parte la valanga di onorificenze che gli piovvero poi addosso. Lui stesso si definì “l’appassionato dilettante di elettricità”. Avrebbe voluto iscriversi all’Accademia navale, ma non poté neanche iscriversi all’università e dovette accontentarsi di seguire come semplice uditore i corsi del professor Righi.
Ma è possibile che Augusto Righi non si fosse accorto della genialità di quel ragazzo? Anche se gli permise di usare gli apparecchi del suo laboratorio, non lo incoraggiò e non si rese conto delle scoperte rivoluzionarie che stava per fare. Meno che mai capì Marconi il Ministero delle Poste, cui egli offrì la sua scoperta del telegrafo senza fili. Infatti lo rifiutò.
E così Marconi si recò in Inghilterra insieme con la madre, dove il suo genio venne subito riconosciuto. Ci si chiede: perché in Inghilterra sì e in Italia no? La risposta, secondo me, è semplice: nei paesi di lingua inglese si è sempre guardato più a quello che un uomo vale come individuo che a quello che rappresenta nella convenzione sociale, in altre parole più a quello che sa fare che ai suoi titoli di studio. In Italia capita esattamente il contrario. Avvenne così anche con altri grandi italiani. Prezzolini, che come Marconi non aveva titoli accademici, appena giunto in America fu subito nominato professore di letteratura italiana alla Columbia University. In Italia, invece, nessuno gli aveva mai fatto una simile offerta.
Su Marconi è uscita ultimamente una biografia, che ci fa conoscere da vicino anche l’uomo Marconi, a cura della moglie Maria Cristina, intitolata Mio marito Marconi (Rizzoli 1995). Nel libro affiora il lato umano del grande scienziato con i suoi gusti artistici e i suoi affetti. Fa un certo effetto leggere lettere così tenere e traboccanti d’amore scritte da un uomo all’apparenza tanto austero. Si vede che l’amore è una forza metafisica che fa traballare anche il cuore di chi è abituato a scrutare le leggi dell’universo.
Ma c’è anche l’amore per la libertà. Il Marconi che trascorre tanta parte della sua vita sul mare, accanto alla moglie e alla figlioletta Elettra, ha qualche cosa di romantico. A differenza di Galileo, che sapeva misurare la distanza tra gli astri ma non quella tra i cuori, come dimostra il suo scarso interesse per la figlia suor Celeste, Guglielmo Marconi lanciava messaggi nell’etere, senza però dimenticare di sussurrare parole dolci come il miele nell’orecchio della moglie che aveva accanto.
Gli ultimi tempi li trascorse in vista del Tigullio, un luogo che cinquant’anni prima aveva affascinato un altro grande: Friedrich Nietzche. E se il tedesco concepì là il suo Zarathustra, Marconi, nello stesso luogo, scoprì la navigazione cieca, detta poi radar. Nietzche e Marconi: apparentemente non avevano niente in comune, ma erano tutti e due astronauti dello spirito: l’uno con la poesia, l’altro con la scienza.
Gabriele D’Annunzio regalò a Marconi una fotografia con questa dedica: «Alla candida nave / di Guglielmo Marconi / che naviga nel miracolo / e anima i silenzi». Nietzsche, rimirando quello stesso mare, aveva sciolto un inno al mistero: «Laggiù voglio andare, e confido / per l’avvenire in me e nella mia mano / Aperto è il mare, verso l’azzurro / si muove la mia nave genovese / Tutto diventa nuovo e più nuovo / Lontano splendono lo spazio e il tempo / e il mostro più bello mi guarda / ridendo: l’eternità».
Anacleto Verrecchia

Torino, 28 marzo 1996
Ristorante CARIGNANO - Grand Hotel Sitea