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lunedì 18 maggio 2015

MARIA ANTONIETTA UNA REGINA TRA ODIO E AMORE. Perché riscoprirla più di due secoli dopo?

Sabato 16 maggio presso l’Associazione Immagine per il Piemonte una relatrice d’eccezione, Alice Mortali, ha tracciato un ritratto completo, emozionante, appassionante di una regina da sempre oggetto di critiche e attacchi, in realtà una gran dama del Settecento da riscoprire, Maria Antonietta di Francia.
Oltralpe si conosce tutto di lei, da noi solo luoghi comuni… Ecco allora la provocazione del titolo della conferenza che si è tenuta nella consueta cornice della Sala Principe Eugenio in via Legnano 2/b: “Maria Antonietta una Regina tra odio e amore? Perché riscoprirla dopo più di due secoli?”
La Presidente dell’Aimant, Associazione Italiana Maria Antonietta (Bologna), primo sodalizio culturale italiano dedicato alla famosa regina di Francia e alla sua epoca, ha tracciato un ritratto a tutto tondo di questa protagonista del Secolo dei Lumi, senza tralasciare le ombre, evidenziando gli aspetti positivi…
Ma chi era? Maria Antonietta (Vienna, 2 novembre 1755-Parigi, 16 ottobre 1793), fu regina consorte di Francia e di Navarra, dal 10 maggio 1774 al 21 settembre 1792, come consorte di re Luigi XVI.

“Pur essendo una delle figure femminili più note della storia, quello di Maria Antonietta regina di Francia, è un personaggio ancora in realtà poco conosciuto – ha sottolineato Alice Mortali - Il tramandarsi di una lunga serie di luoghi comuni e di aneddoti (il più delle volte completamente inventati) hanno relegato questa donna allo sgradevole ruolo di regina frivola e spendacciona, amante insaziabile, moglie manipolatrice, sovrana insensibile alle miserie del suo popolo, l'Autrichienne giustamente ghigliottinata in pieno Terrore rivoluzionario. Quella di Maria Antonietta, sposa bambina, consorte infelice e regina assolutamente impreparata al suo ruolo, è una vicenda in realtà molto più complessa che merita un approfondimento e una riscoperta. Incominciando magari proprio dalla famosa frase delle brioches...”.

Molteplici sono poi i collegamenti, seppur indiretti, che legano Maria Antonietta alla città di Torino e ai Savoia. Proprio le sue due cognate, mogli rispettivamente del futuro re Luigi XVIII (Maria Giuseppina di Savoia) e di Carlo X (Maria Teresa di Savoia), erano infatti due principesse di Casa Savoia, mentre la sua più cara amica, la sfortunata Principessa di Lamballe era una Savoia-Carignano, ramo cadetto della famiglia da cui discendono tutti i re d'Italia.
Torino è anche la città dove il conte svedese Hans Axel Fersen, da molti considerato il vero amore della regina Maria Antonietta, fece tappa durante il suo Grand Tour culturale europeo.
Non ci resta che aspettare l’uscita in libreria della biografia dedicata dalla relatrice alla regina di Francia, finora rimasta nei cassetti polverosi dell’editore Mursia di Milano (VGC).
Alice Mortali, presidente Aimant

giovedì 14 maggio 2015

LA SINDONE NEI SECOLI DELLA STORIA SABAUDA

La prima data certa a cui far risalire la notorietà di questo Lenzuolo, l'unico che superò le critiche della Chiesa Cattolica e dei fedeli, è compresa tra il 1346 ed il 1351. Intorno alla fine del 1300 appartenne, tra numerose dispute economico religiose, a Goffredo II di Charny i cui discendenti nel 1453 la cedettero ai Savoia che la trasferirono nella cattedrale di Chambéry, capitale del loro Ducato; Luigi di Savoia, allora regnante, restituì da quel momento il Sacro Lenzuolo alla venerazione religiosa.

Nel 1532 in seguito ad un incendio, il Telo si danneggiò notevolmente ma fu riparato e ricomparve al culto qualche anno dopo. Dal 1535 la S. Sindone seguì le sorti dei Savoia e delle guerre tra il Ducato e la Francia; nel 1578 trovò temporaneo rifugio a Torino, poi tornò a Chambéry sotto il ducato di Emanuele Filiberto, ma prese definitiva e degna sede a Torino nel 1694 a causa dei mutati interessi dei Savoia che videro nel Piemonte il loro futuro.
Tra la fine del 1700 e la metà del 1800, periodo di grandi rivoluzioni sociali, la Sindone venne gelosamente conservata dai Savoia, subì alcuni brevi trasferimenti per ostensioni o per nasconderla, ed entrò stabilmente nella storia di Torino.
Nel 1898 durante un’ostensione pubblica fu fotografata per la prima volta e si scopri che il negativo fotografico corrispondeva al positivo dell'immagine stessa, provocando sconcerto tra i fedeli e grande curiosità nel mondo della scienza. L'interesse scientifico sulla Sindone crebbe nel XX secolo fino a sfociare in alcune tornate di analisi multidisciplinari effettuate nel 1973, nel 1978 e nel 1988.


La S. Sindone è oggi considerata, da chiunque e per qualsiasi religione, un "unicum" poiché la figura dell'Uomo impresso sul telo non è dipinta o stampata, la sua fotografia contrasta con le leggi dell'ottica e l'immagine, analizzata con i moderni mezzi informatici, contiene un messaggio matematico tridimensionale che sappiamo inesistente per qualsiasi altra immagine umana e che era certamente ignoto alla tecnologia dell'epoca in cui il Telo fu scoperto. Malgrado una recente datazione che fa risalire la stoffa ad una data compresa fra il 1250 ed il 1390, il segreto della sua origine, è ancora incompreso, misterioso e sospeso, come per nessun altro oggetto al mondo, tra la Scienza e la Fede.
La storia della Sindone è strettamente legata a quella dei Savoia: nel 1453 entra a far parte dei beni del duca Ludovico di Savoia e nel 1578, con Emanuele Filiberto, giunge a Torino, trasferita da Chambéry insieme alla corte. Il Sudario resta della casata fino al 1983, quando alla morte di Umberto II, come da sua volontà testamentaria, viene donata al Papa.

Un legame che si traduce nella possibilità di conoscere, in occasione dell’Ostensione, la “Torino reale” e il circuito di residenze, edifici e dimore di Casa Savoia: oltre a Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzo Carignano, Villa della Regina o il Castello del Valentino in città, vi sono la sontuosa Reggia di Venaria, la Palazzina di Caccia di Stupinigi, la Basilica di Superga, i castelli di Rivoli, Moncalieri, Racconigi, Agliè, tutti luoghi carichi d’arte e di storia, capaci di incantare ed emozionare i visitatori (VGC).

lunedì 20 ottobre 2014

IL SENSITIVO GUSTAVO ROL A 20 ANNI DALLA SCOMPARSA


     Una lapide apposta sulla casa abitata per molti anni, una Santa Messa in S. Salvario, lenzuolate con articolo e foto su un quotidiano popolare... così la calvinista Torino ricorda con sobrietà uno dei suoi personaggi più noti del XX secolo, Gustavo Adolfo Rol (1903-1994), a vent'anni dalla scomparsa.
Rol nasce a Torino il 20 giugno 1903, giorno della Consolata, alla quale sarà devoto per tutta la vita. La famiglia è agiata, il padre, Vittorio, è uno dei co-fondatori della sede di Torino della Banca Commerciale Italiana. La madre, Martha Peruglia, è figlia dell'avv. Antonio presidente del tribunale di Saluzzo. Gustavo ha due fratellini, Carlo, nato nel 1897, e Giustina, nata nel 1900. Una terza sorellina, Maria, arriverà nel 1914. Gustavo all'età di cinque anni, con la madre. Dietro la madre ci sono i fratelli: Giustina, 8 anni, e Carlo, 11 anni.  Si racconta che Gustavo non abbia parlato fino all'età di due anni, fino a quando non lo trovarono aggrappato al caminetto della casa di campagna, dove, di fronte ad un'immagine raffigurante Napoleone a Sant'Elena, piangeva e a gridava: "Poleone, Poleone". E infatti la figura di Napoleone gli sarà strettamente legata per tutta la vita, diventando un collezionista di rilievo internazionale di cimeli napoleonici, un esperto delle campagne, delle battaglie e delle imprese napoleoniche.
Nella Palazzina di caccia di Stupinigi è conservato un prezioso dono di Rol, la carrozza di Napoleone con la quale l'imperatore da Parigi si recò a Milano per essere incoronato re d'Italia. Rol l'aveva acquistata a Marengo, dove Napoleone l'aveva lasciata perché si era rotta ed aveva fretta di ritornare in patria. Gustavo Rol passa la sua infanzia tra Torino e San Secondo di Pinerolo, dove la famiglia aveva una residenza del '700.  Inizialmente di carattere chiuso e con modesti risultati scolastici, si appassionerà in seguito allo studio e alla musica, imparando a suonare il pianoforte senza mai aver preso lezioni e perfezionando la conoscenza del violino. Nel 1921 intraprende la carriera giornalistica. Nel 1923 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino, dove si laurea qualche anno più tardi (in seguito conseguirà anche la laurea in economia e commercio a Londra e quella in biologia medica, con Jacques Monod, a Parigi). Lo stesso anno, si iscrive al Corso Allievi Ufficiali di complemento, l'anno successivo è nominato sottotenente e quindi congedato.
Tra il 1925 e il 1930 è in giro per l'Europa in qualità di dipendente delle filiali Comit: Marsiglia, Parigi, Londra e Edimburgo. A Parigi, in un café, conosce la ragazza che poi diverrà sua moglie. Si chiama Elna Resch-Knudsen, norvegese, figlia di un capitano di marina e nipote di un ministro di Stato. Gustavo era solito presentare Elna con orgoglio, facendo notare che ben 17 re facevano parte della sua famiglia.
Passeranno circa tre anni da quell'incontro al loro matrimonio, avvenuto a Torino, nella chiesa di San Carlo in piazza San Carlo, il 17 dicembre 1930. Nello stesso periodo Rol acquista un alloggio in via Silvio Pellico 31, dove abiterà per sessantaquattro anni, sessanta dei quali passati con la moglie, scomparsa nel 1990.
ESPERIMENTI DI ROL
Gustavo Rol chiamava i suoi prodigi "esperimenti". Qui ne daremo qualche esempio tratto dai libri e dagli articoli di giornale che hanno parlato di lui. Si possono distinguere due grandi categorie di "esperimenti": quelli improvvisati, rapidi e spontanei, che si verificavano in qualunque posto Rol si trovasse e in qualunque momento; e quelli delle "serate", quando si trovava con amici e ospiti, presso di loro o a casa sua, dove intorno al suo tavolo ovale si producevano questi fenomeni (ma poteva essere anche in salotto o nello studio) dove egli dava sfogo ad un'improvvisazione che nasceva dai discorsi dei presenti.
Remo Lugli, autore di Gustavo Rol - Una vita di prodigi, edizioni Mediterranee, è stato testimone di numerosissimi incontri e ci dà una fedele descrizione della tipica serata da esperimenti: «Le serate si dividevano di solito in due parti: prima una chiacchierata, poi gli esperimenti. Si discorreva almeno per un'ora; ed era soprattutto Rol che impostava la conversazione affrontando un tema o filosofico o di attualità. Oppure ricordava gli anni della gioventù... Ma c'erano anche serate in cui gli piaceva scherzare, dimenticava i discorsi seri e si metteva a raccontare barzellette. E sapeva essere molto divertente. A un certo punto, in genere verso le 23, finiva la prima parte della serata. Rol proponeva di lasciare le poltrone e si passava al tavolo, che era sempre coperto da un panno verde, il suo colore preferito, quello che gli aveva dato ispirazione nei suoi primi esperimenti. (...)
L'atmosfera, diciamo paranormale, si scaldava con le carte. Davanti a lui erano allineati non meno di otto mazzi da poker, ognuno con il dorso di colore e disegno diverso, quasi sempre nuovissimi perché l'intenso uso li deteriorava facilmente, oppure erano da conservare perché diventati "testimoni" di un particolare esperimento con una o più scritture apparse tra i semi senza il diretto intervento suo. Poteva capitare che, di fronte a un mazzo ancora avvolto nel cellophan, avesse l'estro di far partire la serata proprio da quello: stabilita una carta, sulla omologa racchiusa faceva comparire un proprio segno di matita lasciando l'involucro intatto e senza toccarlo. (...) I mazzi li maneggiava poco, li faceva sempre mescolare e alzare ai presenti. (...) Gli esperimenti di Rol con le carte da gioco - erano esperimenti e non "giochi", questo bisognava ben rammentarlo - venivano fatti a volte in sequenza rapida come una esplosione pirotecnica. Bellissimi, eleganti, a vederli si restava stupiti ma al tempo stesso con la sensazione che fosse una cosa naturale, facile. Ad esempio: faceva mescolare sette mazzi di carte e da un ottavo mazzo faceva scegliere una carta, poniamo il sette di picche. Passava una mano sul dorso dei sette mazzi allineati e poi scopriva di ognuno la prima carta: erano tutte sette di picche! Oppure: posava sul tavolo un mazzo aperto a ventaglio con il dorso in alto e il suo indice gli scorreva sopra, ad arco, come una lancetta d'orologio. "Datemi l'alt" diceva. Allo stop, il dito si abbassava sulla carta sottostante che veniva estratta. Era, poniamo, il tre di fiori. Davanti a lui erano allineati sette mazzi tutti preventivamente mischiati, tutti con le figure coperte. Ne prendeva uno e con un gesto rapido lo lanciava sul piano del tavolo in modo che le carte si distendessero allineate lungo una retta. Risultavano tutte col dorso, eccetto una che presentava la figura: ed era il tre di fiori. Non si erano ancora spente le esclamazioni di meraviglia dei presenti, che Rol lanciava ad uno ad uno gli altri sei mazzi e tutte le file si allineavano mettendo in mostra ognuna una carta girata: il tre di fiori».

sabato 18 ottobre 2014

ARTE E TRADIZIONE DELLE LACCHE MYANMAR a Torino in occasione della visita del Presidente birmano

In occasione della visita del Presidente del Myanmar U Thein Sein a Torino, prevista per il 18 e 19 ottobre, il Comune di Torino, l'Associazione Italia Myanmar, MAO Museo d'Arte Orientale e l'organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO) organizzano un'esposizione di manufatti in lacca prodotti a BaganLa collezione di lacche viene allestita nella Sala Mazzonis di MAO e sarà visibile al pubblico gratuitamente nelle giornate di sabato 18 e domenica 19 ottobre.

L'evento è finanziato dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo e intende promuovere l'artigianato del Myanmar (Birmania) evidenziando la laboriosità dei processi produttivi e i ricchi contenuti storici e artistici che rendono le lacche birmane un prodotto unico al mondo.

In occasione della mostra sarà proiettata una documentazione iconografica tratta dal volume “Missionario e diplomatico. L’avventura di Padre Paolo Abbona dal Piemonte alla Birmania” a cura di Anna Maria Abbona Coverlizza e Vittorio G. Cardinali (Associazione Immagine per il Piemonte).



Il libro propone le ricerche condotte da prestigiosi studiosi – in occasione del convegno promosso dall’Associazione Immagine per il Piemonte (2006) – che svelano la singolare figura di padre Paolo Abbona (1806-1874). Nato a Monchiero il 27 aprile 1806, entrò nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine nel 1831. Nel luglio 1839 partì missionario per la Birmania, dove restò fino al 1873: fu amico dell’imperatore, abile mediatore nelle guerre tra birmani e inglesi, Cavaliere ed Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Commendatore nell’Ordine della Corona d’Italia, per invito di Lord Palmerston e nomina di re Vittorio Emanuele II.
Padre Paolo Abbona in un disegno conservato alla British Library di Londra
Il volume ricostruisce, attraverso molteplici contributi interdisciplinari, le vicende e lo sfondo di una vita straordinaria. In queste pagine trionfa anche il fascino della storia, dell’arte e della letteratura della Birmania dell’Ottocento, accanto alle vicende del missionario cuneese che ritornò in Piemonte a chiudere la sua straordinaria avventura, nella spiritualità ed umiltà della casa degli Oblati a Boves (Cn).
E dalla ricerca iconografica, grazie alla preziosa collaborazione di Archivi e Musei, ecco rivelarsi documenti, fotografie dell’Ottocento, reperti che aiutano ad immaginare la Birmania, al tempo di padre Abbona.
Mistica e mitica, affascinante e contraddittoria, la Birmania- Myanmar è tornata «nuovamente protagonista della cronaca odierna e degli equilibri politici asiatici dalla rivoluzione dei monaci al rinnovato ruolo di Aung San Suu Kyi. È un filo rappresentato dalla forte aspirazione all’indipendenza del popolo birmano, un anelito che non venne mai meno e del quale lo stesso Padre Abbona fu testimone, nei suoi anni di permanenza in Birmania» (dalla prefazione di Piero Fassino).
Info: cell. 348 4435212.



giovedì 18 settembre 2014

CACCIA e CANI NELLE TELE DELL'IPERREALISTA QUADRONE. Una bella mostra alla Fondazione Accorsi-Ometto



Giovanni Battista Quadrone, L'occasione fa il ladro, 1895, coll. priv.
Uscendo fuori dal coro e dalla moda dell’arte contemporanea – caposaldo della cultura torinese – la Fondazione Accorsi-Ometto continua nella sua benemerita rivalutazione della pittura italiana dell’Ottocento. Così, dopo le antologiche dedicate a Fontanesi e Pasini, ora è la volta del monregalese Quadrone (1844-1898), autore di dipinti finitissimi, di medie e piccole dimensioni. La mostra “Giovanni Battista Quadrone. Un “iperrealista” nella pittura piemontese dell’Ottocento” è aperta da oggi fino al 15 gennaio 2015 (www.fondazioneaccorsi.ometto.it) in via Po 55, a cura di Giuseppe Luigi Marini (ingresso € 6,00).
G. B. Quadrone, Il compagno fedele, 1881.
G. B. Quadrone, Prima della partenza per la caccia, 1897.
Il percorso espositivo si apre con una selezione di quadri giovanili, d’ispirazione romantica, quali “L’agguato” e “Un giullare”, fino ad arrivare a “Vergognosa” e “Ogni occasione è buona!”. In essi Quadrone tende a rappresentare soggetti in costume del passato, di riferimento letterario, ma in situazioni riferibili al proprio tempo. Ampio spazio è dedicato ai temi che sono prediletti dal maestro e nei quali egli chiude il capitolo dei personaggi in costume per privilegiare una scelta di contenuti più attuali: da “Cacciatore fortunato” a “Processione in Sardegna”, quest’ultima minuziosa descrizione dei luoghi e del salmodiante corteo; dal tema venatorio “Entrate che fa freddo” a “Una vecchia berlina,” opera di intensità straordinaria, profonda, poetica e misteriosa.
Il fil rouge che lega tutti i soggetti delle opere di Quadrone è la paziente definizione «iperrealistica» delle scene di vita venatoria, circense o rusticana. Cesellava, con il colore, i particolari anche minimi, con tecnica e precisione inesorabili, nulla dimenticando e a nulla rinunciando di quanto riteneva utile alla completa rappresentazione di una situazione. Una mostra da non perdere (Vgc).

mercoledì 3 settembre 2014

IL CASTELLO DI GUARENE RIAPRE COME ALBERGO. Un gioiello del Settecento piemontese rivalutato


Una bella notizia per il patrimonio culturale e architettonico del Piemonte: il 12 settembre riapre le sue antiche porte il Castello di Guarene sulle colline del Roero. Si tratta di una delle più eleganti dimore signorili settecentesche del Regno sabaudo eretta nel 700 dal conte Carlo Giacinto Roero di Guarene su disegno dell'architetto di Corte Filippo Juvarra. Un splendido volume su questo gioiello è stato scritto dal giornalista e scrittore Roberto Antonetto. Alla buona novella del recupero di questo maniero, si contrappone la triste constatazione che ormai i castelli privati per sopravvivere devono andare "sul mercato" ovvero diventare ristoranti, alberghi, agriturismi... In questo modo il bene culturale si salva, ma viene irreparabilmente snaturato. Una prospettiva poco allettante per il nostro patrimonio storico, sul quale - dopo l'abdicazione da parte dello Stato - incombe l'economia di mercato come un'aquila su un candido agnello! Più di vent'anni fa l'ultima proprietaria di Guarene, contessa Anna Provana di Collegno, ci rilasciò una lunga intervista per la rivista "Piemonte Vip" (ottobre 1993). La riproponiamo sia come testimonianza, sia come riconoscimento agli antichi castellani del Piemonte, che hanno resistito per secoli e ora devono ammainare lo stendardo dalla torre più alta (VGC).


Castello Roero di Guarene. Un balcone sulla storia del Piemonte - Intervista ad Anna Provana di Collegno

La facciata interna del castello Roero di Guarene (Cuneo).
Pochi castelli del Piemonte attirano i cultori di storia e gli amanti delle pietre antiche come quello di Guarene, sulle basse colline della Sinistra Tanaro albese, oggi Roero. La spiegazione di questo interesse va ricercata nell’”amore per la casa” che i proprietari hanno sempre riservato a questo edificio, facendolo arrivare a noi in perfetto stato di conservazione, e nel singolare spaccato di vita e cultura piemontese che rappresenta la sua storia dal Settecento ai giorni nostri.
Attribuito a lungo erroneamente all’abate-architetto Filippo Juvarra, la scenografica costruzione barocca fu eretta fra il 1726 e il 1775 su disegni e a spese del conte Carlo Giacinto Roero, in sostituzione del maniero medioevale demolito. Per un approfondimento storico e artistico vi rimandiamo ai documentati libri scritti negli Anni 70 e 80 del Novecento dai fratelli Romanello, da Guido Ferrero e Renato Fresia, da Roberto Antonetto, “pool” di ricercatori di storia e giornalisti appassionati d’arte che da anni si dedicano alla ricostruzione delle vicende di Guarene; per la “casa” intervistiamo invece l’attuale proprietaria, contessa Anna Provana di Collegno, che vive per alcuni mesi dell’anno nel castello ereditato recentemente dal padre, conte Umberto, e spende tempo ed energia per tenere in perfetto stato muri, tetti, giardini e viali.
Siamo saliti a Guarene nel pomeriggio di una torrida domenica di agosto e dalla calura di Alba ci accorgiamo subito che in collina si respira un’altra aria, un lieve venticello ci solleva la camicia quando scendiamo dall’auto sul piazzale del palazzo. Lo sguardo abbraccia, in un vasto panorama, tutto l’arco delle Alpi occidentali, che paiono unirsi direttamente alle colline del Roero.
La fedele custode annuncia il nostro arrivo con un tocco di campana. Sappiamo che Anna Provana rilascia difficilmente interviste, perché come molti aristocratici piemontesi non ama comparire sui “rotocalchi”, ma la nostra inchiesta sulle dimore private della regione non poteva dimenticare Guarene, dopo le tappe di Biella, Borgomale e Monticello.
Chiariti gli scopi informativi e non “mondani” dell’incontro, rompiamo il ghiaccio parlando di un fatto d’attualità: in Belgio si festeggiano i nuovi sovrani Alberto II e Paola Ruffo di Calabria, succeduti allo scomparso Baldovino. Anna Provana non può fare a meno di ricordare l’incontro di un anno fa con i Principi di Liegi, ospiti della sorella di Paola nel castello di San Martino Alfieri (Asti), giunti a Guarene per una visita di cortesia. “Com’è nello stile delle Corti dell’Europa settentrionale - sottolinea la contessa Provana - Alberto e Paola del Belgio si sono rivelati simpatici, affabili, cortesi e molto interessati ai beni culturali italiani. I belgi ameranno anche questi nuovi sovrani, così come è successo per Baldovino e Fabiola”.
Ci sembra un buon inizio. Partiamo con l’intervista.
A luglio il matrimonio di sua figlia, Umberta, ha fatto riaprire le porte del castello per un lieto evento. Quali riflessioni e quale consuntivo può fare di quel felice momento?
“Mia figlia desiderava fortemente sposarsi qui, una scelta che mi ha riempito di gioia perché conferma quell’attaccamento a Guarene che ha sempre contraddistinto la mia famiglia, in particolare mio padre Umberto e tutti i nostri avi. Ciò mi dà un senso, una speranza di continuità”.
Perché Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, è intervenuto come testimone alle nozze di sua figlia. E’ solo per amicizia?
“Non solo, innanzitutto per sottolineare la profonda fedeltà che ci lega a Casa Savoia”.
Chiamarsi Provana di Collegno alle soglie del Duemila, ovvero essere nel novero di antiche famiglie che hanno svolto un ruolo tante volte primario sulla scena della storia piemontese degli ultimi secoli, è un privilegio, un vanto o uno svantaggio?
“Lo considero sicuramente un vanto e anche, forse, un peso, perché ritengo di dovermi comportare con la stessa coerenza che hanno avuto quelli che mi hanno preceduto”.
Chi conosce la storia di Guarene nel Novecento non può fare a meno di collegare questo castello alla figura di suo Padre, conte Umberto Provana di Collegno. Ce ne può fare un breve ritratto.
“Il ritratto di mio padre, Umberto, è molto semplice da fare: devo a lui tutta la mia vita e l’educazione ricevuta. Mi ha sempre insegnato la fedeltà alla religione, al Re e l’impegno nella vita. Per lui si può dire come scrisse Tocqueville: «L’aristocratico è un uomo fermo al suo posto e illuminato, che non muore»”.
E dei rapporti tra suo Padre e il principe, poi re Umberto II, cosa ci può dire?
“Il re onorava mio padre della sua amicizia e del suo affetto e mio padre era legato a Umberto da una profondissima fedeltà. Ha avuto degli incarichi ufficiali più che altro per gli ordini cavallereschi. Inoltre Umberto II scriveva a mio padre tutte le volte che dall’Italia arrivavano a Cascais richieste di aiuto o di interessamento da parte di gente fedele che voleva avere contatti con il sovrano in esilio.
Tutti gli anni si incontravano a Montpellier, per la commemorazione della regina Elena sepolta in quella città del sud della Francia, e a Cannes, per il raduno dei monarchici. Mio padre, insignito della più alta onorificenza reale, il Collare della SS. Annunziata, ha poi personalmente curato il cerimoniale per le solenni esequie di Umberto II ad Altacomba, in Savoia, nel 1983 alla presenza di re, regine, principi, nobili di tutta Europa e migliaia di italiani”.
Un scorcio dello stupendo giardino all'italiana di Guarene (Cn)
Lei si ritiene monarchica? Se sì, quale ruolo potrebbe svolgere secondo Lei la monarchia in Italia alle soglie del Duemila?
“Certo, mi ritengo monarchica e non solo per tradizione di famiglia o per fedeltà alla causa. Sono una persona che lavora e come tale amo la qualificazione del proprio mestiere. Quindi, sono sicura che una persona allevata in un certo modo, convinta di quello che può rappresentare, e che si comporti ad esempio come re Baldovino dei Belgi, recentemente scomparso e compianto da tutto il suo popolo, possa essere determinante in una Nazione che sta perdendo i suoi valori. L’identificarsi cioè in chi è al di sopra, ma rappresenta tutti noi e l’unità del Paese, garante supremo della Costituzione. Non qualcuno che cambia ogni sette, otto anni...
Condivido in pieno quanto ha scritto oggi sulla Stampa (8 agosto ‘93) Barbara Spinelli: «Manca il mito, alla democrazia, in un mondo dove quasi tutto è smitizzato. Non è semplice vivere se manca la speranza che possano esistere un re o un capo di Stato che servono la Nazione fino a dimenticare se stessi, le proprie sofferenze fisiche, la propria vita privata. Se la speranza svanisce, la politica diventa null’altro che il regno della necessità, o della trivialità»”.
Suo padre Umberto ricoprì cariche all’interno delle associazioni monarchiche (UMI, MMI, ecc.). Lei fa altrettanto?
“Non ricopro alcuna carica, ma ho aderito al Comitato sorto quest’anno per commemorare il decennale della scomparsa di Umberto II, presieduto da Alessandro Perrone di San Martino”.
Torniamo a parlare di questo castello tanto amato dalla sua Famiglia. Una curiosità: da anni circolano voci sulla vendita del palazzo alla Fiat o ad altro industriale. E’ un’informazione fondata o pura fantasia?
“Si tratta di pura fantasia!”.
Quando e da che cosa possono essere nate queste illazioni?
           “Onestamente non lo so. La Fiat aveva presentato qui il Modello 850 e dato che i rapporti tra il Presidente dell’azienda automobilistica e mio Padre sono sempre stati ottimi (si consideravano quasi parenti per via dei legami con la principessa Bourbon Del Monte, madre dell’avvocato Agnelli), abbiamo dato la casa gratuitamente per quella promozione. Forse sono nate in quel momento le “voci” infondate sulla vendita di Guarene alla Fiat!
Un castello è talvolta una grande casa con molti restauri da fare. Guarene è così? Perché ha scelto la strada della conservazione?
“Questo palazzo e il giardino all’italiana che lo circonda sono sempre stati molto curati da mio padre Umberto, a costo di grandi sacrifici. Anziché fare viaggi, crocere o divertirsi, ha preferito destinare i suoi soldi alla manutenzione del complesso. Io cerco di seguire le orme paterne ed ho dovuto già fare qualche lavoro. Se non ci sono stati contributi, devo dire che la Soprintendenza mi ha facilitato con sgravi fiscali”.
Cosa pensa del rinnovato interesse del turismo per castelli, torri, rocche, e ville antiche?
           “E’ molto semplice. Per anni abbiamo perso l’amore per il nostro passato e adesso stiamo riscoprendo l’importanza delle nostre origini, della conservazione della storia. Penso che anche edifici come questo siano dei punti di riferimento un po’ per tutti. In particolare conosco l’affetto che i guarenesi nutrono per il castello e devo dire che ho con tutti ottimi rapporti. Loro lo considerano forse come “la casa”, desiderano fare le foto qui quando si sposano... Lo amano perché un nutrito gruppo di storici locali, i fratelli Romanello, Fresia, Ferrero, hanno scritto molte pagine sulle origini del palazzo e del paese. Mio padre - tutti lo ricordano bene - ha sempre dimostrato la massima disponibilità nell’apertura degli archivi alla ricerca seria e fruttuosa. Archivi che considerava “suoi” per l’aspetto della conservazione, ma un “bene” a cui tutti dovevano partecipare”.
Aderisce all’Associazione Dimore Storiche Italiane, al Fai o ad altri sodalizi?
           “Sono associata alle Dimore Storiche Italiane e condivido in pieno il programma di rivalutazione condotto molto seriamente dal Presidente regionale Ippolito Calvi di Bergolo.
Notturno della facciata principale del settecentesco castello di Guarene (Cn)
Secondo il suo giudizio la via della rivalutazione culturale e artistica di un bene sottoposto a vincolo passa per la cultura, il turismo, lo spettacolo, la musica, l’enogastronomia o altro?
“Aprire oggi le porte di una dimora storica privata vuol dire avere visitatori, avere molte spese. Sì, al contrario di quanto accade per i castelli francesi e inglesi, in Piemonte non esiste un flusso turistico tale da permettere un “utile” ai proprietari: quindi esistono solo grandi problemi di carattere burocratico. Far pagare un biglietto d’ingresso vuol dire tenere scritture cantibili, pagare il commercialista, i custodi, le guide... No! Preferisco far vedere Guarene gratuitamente a chi è veramente interessato: associazioni culturali, storici, cultori dell’arte dei giardini (l’anno scorso è stato un vero piacere ospitare un gruppo di inglesi, che hanno ammirato il giardino del palazzo). Le porte restano ovviamente chiuse ai curiosi, a chi vuol trovare a tutti i costi il fantasma nella torre o nei sotterranei...
Per non parlare del problema dei furti. Per difendere la nostra proprietà siamo costretti a rinnovare continuamente gli impianti, per seguire le tecnologie più avanzate del settore. Certo vedrei con interesse e piacere una manifestazione culturale “ad hoc” per rivalutare Guarene, senza però danneggiarne o massificarne l’immagine”.
Un’ultima domanda sul futuro, sul XXI secolo. Come immagina il castello di Guarene nel Duemila?
“La mia speranza è che resti per sempre una dimora privata, perché ho lavorato, come medico, nel settore pubblico e non ho grande fiducia nell’Amministrazione dello Stato. Ritengo che l’amore e le cure profuse da un privato siano molto più valide per conservare l’integrità di un edificio storico.
Mi auguro, quindi, che anche con mia figlia Umberta continui nel Duemila per Guarene la stessa destinazione d’uso odierna. Nel prossimo secolo la mentalità sui beni culturali sarà ancora più aperta di quella che è adesso. Aumenta la cultura, il benessere, l’amore per le cose belle e per questi castelli, ne sono certa, conservati intatti per secoli, vedo un futuro migliore”.

Vittorio G. Cardinali 

(mensile “Piemonte Vip”, ottobre 1993, pp. 50-52)

giovedì 19 giugno 2014

PICCOLI PRINCIPI da MADRID a STUPINIGI. Un'elegante e piccola mostra per rivalutare un gioiello del 700 piemontese


Elisabetta di Lorena, 1720 ca.
Dal novembre 2011 la Palazzina di Caccia di Stupinigi non faceva più parlare di se, mentre riprende la sua dignità di museo del Settecento da oggi fino al 30 dicembre con l’esposizione Piccoli Principi a Stupinigi di 19 dipinti appartenenti alla collezione dei ritratti degli infanti sabaudi che arredavano un tempo la galleria dei ritratti della palazzina di caccia. Si tratta di un'anteprima di alcune chicche sui 33 dipinti sul tema.
Pittore francese, Principessina di Lorena in fasce, sec. XVIII,  I quarto
Proprio nel giorno d’insediamento del nuovo re di Spagna Filippo VI, affiancato dalle due piccole figlie le Infante Leonor e Sofia, da Madrid a Stupinigi si ammirano i ritratti dei figli della Casa regnante sabauda, come ha scritto Federico Zeri: “già dalla nascita il rampollo della classe dominante è visto come colui che, da adulto, occuperà un posto di comando. Egli è l’anello di congiunzione tra il presente e il futuro”.
Senza contare un altro aspetto che collega i due eventi: sia la palazzina di Stupinigi che il palazzo reale di Madrid sono costruiti su disegno del grande architetto di Corte Filippo Juvarra.
Giuseppe Duprà, Maria Giuseppina con mappa e colomba, 1760 ca.
Una piccola mostra allestita da Elisabetta Ballaira e Angela Griseri posta lungo l’attuale percorso di visita nell’antibiblioteca e nella biblioteca alfieriane, mentre i restauri in corso hanno permesso di riaprire da poco il salone dell’anticappella e la cappella di S. Uberto. I commissari Giovanni Zanetti e Cristiana Maccagno hanno ricordato che l’Ordine Mauriziano è un ente autonomo che deve gestire e valorizzare beni pubblici (oltre a Stupinigi, le abbazie di Ranverso e Staffarda, l’Archivio Storico, secondo dopo quello di Stato), sottolineando che da poco tutta la struttura operativa della palazzina (22 dipendenti) si è insediata in un’ala apposita, senza dimenticare il fondamentale apporto degli sponsor, come la Consulta per i beni artistici e culturali di Torino. Ma senza un coordinamento tra sistemi culturali del territorio – sempre nelle parole dei commissari – non si può assicurare continuità ed efficienza della fruizione. “Con la reggia di Venaria i rapporti sono aperti – sottolinea Maccagno – ma siamo enti diversi”.
Dalla lettura dei quadri restaurati emergono le storie dei figli di re Carlo Emanuele III e delle tre mogli, Anna Cristina Luisa di Baviera, Polissena d’Assia Rheinfels ed Elisabetta di Lorena, di mano della pittrice torinese Maria Giovanna Battista Clementi, detta la Clementina. Un altro gruppo è quello dei figli di re Vittorio Amedeo III e di Maria Antonia Ferdinanda di Spagna, databili tra il 1760 e il ‘68 e realizzati dai pittori torinesi Domenico e Giuseppe Duprà. A conclusione il gruppo dei principini di Orléans e di Lorena di scuola francese. Si rimane colpiti da due piccoli stretti in fasce come mummie. Fin dalla nascita il neonato regale deve essere chiuso entro rigide strutture, che gli rendono impossibile ogni movimento autonomo. Come scrive sempre Zeri: “secondo la mentalità del 700 il bambino è qualcosa di negativo, se non pericoloso, perché ignora del tutto il ruolo che, una volta cresciuto, dovrà assumere” (V.G.C.)
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Piccoli Principi a Stupinigi (fino al 20 dicembre), Stupinigi, Nichelino, tel. 011-3581220 - www.ordinemauriziano.it - facebook.com/Stupinigi.Mauriziano Orari: mart.-ven. 10-17,30 dalle 10 alle 17.30; sab. e festivi 10-18.30, lun. chiuso. Ingresso mostra e percorso museale: intero 12 €, ridotto 8 €

Vista su Torino dal balcone del Salone d'Onore della Palazzina di Caccia di Stupinigi.